Uno dei principali effetti del climate change: le ‘bombe d’acqua
L’alluvione di Senigallia dello scorso 15 settembre è solo l’ultimo di una tipologia di eventi con cui il nostro Paese ha a che fare sempre più frequentemente. Uno degli effetti maggiormente visibili del cambiamento climatico è infatti l’intensificarsi di accadimenti estremi quali piogge torrenziali (le cosiddette ‘bombe d’acqua’) che arrivano a concentrare in pochi minuti il quantitativo di precipitazioni solitamente riscontrabili lungo un intero anno. Da qui fenomeni alluvionali con il portato di frane e smottamenti che coinvolgono ormai il 90% dei Comuni italiani, tanto che quasi un quinto del territorio è considerato a rischio medio-alto.
La fragilità idrogeologica ‘strutturale’ dell’Italia
I fattori più importanti per l’innesco di situazioni di dissesto idrogeologico sono infatti le precipitazioni intense e i terremoti, i quali, nel caso dell’Italia, colpiscono un territorio che già nella sua conformazione geomorfologica si caratterizza per una notevole fragilità, aggravata negli ultimi decenni dagli incendi di vaste aree boschive e dai fenomeni di abbandono delle colture agricole nelle aree montane. Ma questa vulnerabilità strutturale viene ora moltiplicata dalle molteplici implicazioni del climate change, con precipitazioni intense alternate a lunghi periodi siccitosi.
Il cambiamento climatico aggrava la vulnerabilità idrogeologica del nostro territorio
L’Italia, in particolare, negli ultimi anni ha visto un forte aumento dei fenomeni di flash flood, piogge brevi intense e concentrate che, in funzione delle caratteristiche del bacino, possono generare piene improvvise e incontenibili in corrispondenza di centri abitati, ponti, ferrovie e altre infrastrutture viarie. Insieme ai fenomeni di piena improvvisa, a causa dei cambiamenti climatici, si registra un incremento da un lato delle frane del tipo colate rapide di fango e detriti, dall’altro di fenomeni di erosione del suolo quale conseguenza dell’aumento delle temperature e dell’indice di aridità.
Dissesto idrogeologico e consumo di suolo: un legame a doppio filo
Tutto ciò è aggravato, e insieme causato, da fattori antropici quali tagli stradali, scavi, sovraccarichi e soprattutto da una pratica deleteria che negli ultimi decenni ha pesantemente colpito il nostro territorio: il consumo di suolo. La ragione della nocività di tale pratica è molto semplice: la crescente cementificazione di spazi naturali produce l’impermeabilizzazione dei terreni, rendendo impraticabile lo svolgimento di servizi ecosistemici essenziali quali l’assorbimento delle acque, la stabilizzazione dei versanti collinari e montuosi, la ricarica delle falde, l’assorbimento di carbonio.
La cementificazione del territorio pregiudica le funzioni essenziali degli ecosistemi
Il risultato è che l’8% cento circa del territorio italiano è già stato impermeabilizzato e una porzione molto più ampia è interessata da fenomeni di degrado naturale e frammentazione degli habitat. Dopo un rallentamento durante gli anni della crisi economica il consumo di suolo è ripreso a un tasso di 2 metri quadrati al secondo, con una occupazione complessiva che ad oggi è calcolata in oltre 23 mila km quadrati. Si tratta pertanto di enormi porzioni di territorio che vedono irrimediabilmente pregiudicate le funzioni essenziali garantite dagli habitat naturali quali appunto l’assorbimento e conservazione delle acque, la tutela della biodiversità, la regolazione climatica, l’approvvigionamento alimentare.
I molteplici danni ecologici (ed economici) del consumo di suolo
Che cosa questo concretamente comporti lo si trova scritto nel ‘Rapporto 2020’ del Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente. Le aree naturali perse solo negli ultimi sette anni garantivano la fornitura di 3 milioni e 700mila quintali di prodotti agricoli e 25mila quintali di prodotti legnosi, lo stoccaggio di due milioni di tonnellate di carbonio, l’infiltrazione di oltre 300 milioni di metri cubi di acque piovane che ora, scorrendo in superficie, non sono più disponibili per la ricarica delle falde e aggravano la pericolosità idraulica dei territori. Traducendo tutto ciò in termini economici si è stimato che questo consumo di suolo recente produca un danno potenziale che supera i 3 miliardi di euro ogni anno.
PTE: azzeramento del consumo di suolo al 2030
È dunque fondamentale prendere atto che i due aspetti, consumo di suolo e prevenzione dei dissesti idrogeologici, sono strettamente connessi tra di loro e ai cambiamenti climatici. Per minimizzare tali dinamiche distruttive il Piano di Transizione Ecologica dedica a questi temi il quarto dei propri 8 punti, proponendosi da un lato di adottare obiettivi stringenti di arresto del consumo di suolo, fino ad un suo azzeramento netto entro il 2030, dall’altro di migliorare sensibilmente la sicurezza del territorio e delle comunità più vulnerabili.
Le parole d’ordine di PTE e PNRR: stop cemento, rinaturalizzazione, prevenzione
In ordine al primo aspetto l’obiettivo del PTE è, come detto, quello di arrivare ad un consumo zero netto di territorio entro il 2030, sia minimizzando gli interventi di artificializzazione sia incrementando il ripristino naturale delle aree più compromesse, quali gli ambiti urbani e le coste, attraverso l’emanazione di una specifica legge nazionale. Quanto al secondo obiettivo, il Piano si propone di contrastare il dissesto idrogeologico attraverso una organica politica nazionale di tutela del territorio e prevenzione dei rischi, declinata nei numerosi interventi già previsti dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza.
Monitoraggio e prevenzione dei dissesti oggi possibili grazie alle nuove tecnologie
In particolare, il PNRR prevede il rafforzamento degli strumenti di governance e monitoraggio del dissesto idrogeologico con:
- il rafforzamento degli strumenti di operatività di Regioni e Comuni e delle strutture tecniche a supporto dei commissari straordinari e delle Autorità di bacino;
- l’investimento sulle capacità previsionali degli effetti del climate change attraverso sistemi avanzati di monitoraggio e sensoristica, supportati dall’uso delle moderne tecnologie satellitari;
- l’aggiornamento dei Piani di adattamento e di prevenzione dei rischi.
1,5 milioni di persone vivono in zone a forte rischio di disastri idrogeologici
Poste le basi di governance e di monitoraggio, il PNRR destina poi 2,5 miliardi di euro a prime significative misure di prevenzione e contrasto del rischio idrogeologico affiancando interventi volti a mettere in sicurezza da frane o ridurre il rischio di allagamento ad azioni di prevenzione e adattamento su aree più vaste particolarmente critiche, con l’obiettivo di mettere in sicurezza 1,5 milioni di persone oggi fortemente a rischio. È poi prevista una versione aggiornata dei Piani di Gestione del Rischio Alluvioni e l’attuazione delle azioni contro il dissesto del territorio già contenute nel Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici.
Una difesa naturale contro il dissesto: la tutela della biodiversità
Nel PTE è di particolare interesse, anche oltre l’orizzonte del PNRR, la previsione di interventi attuati dai consorzi di bonifica per la gestione e manutenzione del territorio rurale, dei canali e della rete idrica minore finalizzati a ridurre i rischi connessi al dissesto idrogeologico. Così come linee di azione di difesa del suolo attraverso la transizione verso pratiche agricole più sostenibili: almeno il 10% delle superfici agricole deve assicurare la presenza di elementi caratteristici del paesaggio ad elevata biodiversità. Coerentemente con queste politiche anche il suolo e le foreste vanno resi più resistenti a fenomeni erosivi, incendi e desertificazione, perseguendo un aumento dell’estensione delle superfici e, ancora una volta, garantendo la biodiversità delle specie presenti.